Voglio andare dritto al cuore della questione: il biorisanamento (bioremediation) funziona, e funziona anche molto bene, ed è assolutamente efficace, efficiente, economico, ecologico e eco-compatibile!
Sicuramente saprai che, con biorisanamento si intende quella tecnica di bonifica ambientale che utilizza gli Attivatori Biologici, ossia i microrganismi e i loro prodotti (enzimi e biotensioattivi), per riequilibrare, risanare o risolvere contaminazioni, in qualsiasi matrice ambientale.
Quello che forse non sai, è che l’utilizzo dei microrganismi, nelle tecnologie di biorisanamento, risale addirittura alla fine degli anni ‘60, quando George Robinson, per la prima volta, impiegò i batteri per degradare una fuoriuscita di petrolio lungo la costa di Santa Barbara (in California), scatenando così l’interesse morboso di tutto il mondo accademico e scientifico.
Nel corso degli anni, hanno studiato, testato, analizzato e sviscerato il biorisanamento in tutti modi possibili e immaginabili, ottenendo sempre lo stesso risultato: se operato sapientemente e correttamente, funziona bene e costa poco, rispetto ai sistemi classici di bonifica.
Ovunque nel mondo, hanno concepito, sviluppato e messo a punto tecnologie diverse per sfruttare i microrganismi nel biorisanamento, tutte con lo stesso caposaldo:
Qualsiasi sia la tecnologia, la rimozione avviene sempre grazie ai microrganismi, che attuano un processo chiamato di “mineralizzazione”. In pratica, attraverso un lavoro congiunto e coordinato di tutte le diverse specie microbiche presenti e al loro co-metabolismo, composti complessi e pericolosi, vengono via via scomposti, sino ad essere trasformati in CO2 e H2O.
Ecco, c’è ancora una questione, che sta alla base di tutto e che da anni toglie il sonno alla comunità scientifica: “è meglio utilizzare i batteri già presenti sul sito contaminato o è forse meglio aggiungerne di altri più specializzati?”
Usando una terminologia un po’ più tecnica: è più efficace la biostimolazione (biostimulation) o il bioaumento (bioaugmentation)?
Per risolvere questo dubbio amletico, sono stati eseguiti centinaia di test sia in campo, che in laboratorio e prodotte centinaia di pubblicazioni scientifiche. Ma la risposta che viene sempre fuori, se la domanda è posta in questi termini, è: “dipende”.
La risposta delle popolazioni microbiche, sia aggiunte che stimolate, dipende troppo da parametri come: la struttura chimica, la concentrazione e la biodisponibilità del contaminante; le dimensioni e le caratteristiche chimico-fisiche del sito (pH, ossigeno, nutrienti, umidità, clima, pedologia, contenuto di sostanza organica, geologia, idrogeologia), etc..
Nostra opinione è che la domanda in realtà, sia posta male: perché mettere in competizione due metodiche che invece darebbero il loro meglio se fossero sempre applicate insieme?
L’uso abbinato e sapiente di entrambe, porta a risultati veramente straordinari, con contaminazioni risolte in molto meno tempo e costi di bonifica neanche lontanamente paragonabili con le tecniche classiche!
Non ti ho convinto? OK. Proviamo allora, ad analizzare in dettaglio come funzionano queste due tecniche e quali sono le loro specificità. Vedrai, che poi sarà molto più chiaro capire come possono completarsi a vicenda e massimizzare ogni singolo intervento di biorisanamento.
Il bioaumento è la pratica di introdurre specifiche e pre-selezionate miscele di microrganismi (coltivati, specializzati e con comprovate capacità biodegradative), nella matrice ambientale contaminata (suolo, acqua, aria e anche rifiuti), per incentivare ed accelerare la biodegradazione di specifici contaminanti complessi, e raggiungere obiettivi di bonifica rapidamente con significativi risparmi sui costi.
La logica è implementare le popolazioni microbiche autoctone, che potrebbero, o non essere specializzate per metabolizzare quello specifico contaminante o ancora, non essere riuscite a reagire prontamente, a causa dello stato di stress, provocato dalla recente esposizione alla contaminazione.
Requisito fondamentale, affinché funzioni, è che i consorzi microbici addizionati, oltre ad essere specializzati, abbiano una crescita rapida, una facile coltivabilità, una capacità di resistere ad alte concentrazioni di contaminanti e di adattarsi e sopravvivere in condizioni ambientali avverse.
L’insediamento di batteri coltivati in un ambiente estraneo, e probabilmente ostile, potrebbe comportare non pochi problemi di sopravvivenza, causati dalla competizione trofica con i microrganismi autoctoni, la presenza di predatori o da altri diversi fattori abiotici.
Soprattutto in situazioni di scarsa disponibilità di nutrienti limitanti, come l’Azoto ed il Fosforo.
Spesso, queste difficoltà che i microrganismi possono incontrare nell’acclimatarsi alle nuove condizioni e muoversi attraverso i pori del terreno sino ai contaminanti, è stata fraintesa con una loro inidoneità e una scarsa capacità di degradare i composti target.
Ecco quindi perché, la quantificazione dell’inoculo biologico e le modalità della sua distribuzione, debbano necessariamente considerare anche questo stress competitivo.
Mentre, una scelta sbagliata della tipologia di microrganismo da inoculare, potrebbe causare un potenziale problema di intasamento delle falde acquifere, dovuta ad una loro proliferazione incontrollata, che, tra l’altro, non avrà alcun effetto migliorativo sulla bonifica.
In diverse applicazioni, hanno testato il bioaumento prelevando ed isolando i batteri da inoculare, direttamente dal sito contaminato. La logica è quella di poter impiegare consorzi microbici che, in teoria, sarebbero già acclimatati al sito specifico.
Tralasciando il fatto che, come detto, i batteri autoctoni, potrebbero trovarsi in realtà, in uno stato di forte stress, a causa dell’esposizione alla recente contaminazione, la mia domanda è:
“Perché andare per tentativi, prelevando campioni di terreno contaminato, per cercare, selezionare e sperare di trovare qualche ceppo batterico funzionale, quindi isolarlo in laboratorio e testarlo sul contaminante per poi, se funziona, coltivarlo e re-inocularlo nello stesso suolo contaminato, quando esistono preparati microbici coltivati, altamente specializzati, ultra-testati e specifici per ogni contaminante, che possono essere forniti, attivati e usati in pochissimo tempo e con costi di gran lunga inferiori?”
La biostimolazione, in diverse pubblicazioni, viene definita come una tecnica di bonifica naturale ed ecologica, poiché mediante la modifica dell’ambiente, con l’aggiunta di nutrienti limitanti, sarebbe possibile stimolare i batteri esistenti, incentivando le attività di biorisanamento.
Semplificando all’estremo, la biostimolazione si consegue attraverso l’aggiunta di:
Lo scopo è stimolare la popolazione e di conseguenza l’attività metabolica dei microrganismi già presenti in natura e, “probabilmente” disponibili per il biorisanamento.
Neanche a dirlo, affinché la biostimolazione possa rappresentare una tecnica di bonifica autosufficiente, necessita di una preliminare valutazione sia della microflora autoctona, sia delle loro capacità di biodegradazione, sempre in funzione dei parametri ambientali che condizionano la cinetica del processo di decontaminazione.
In pratica, con la biostimolazione, il biorisanamento verrebbe affidato ai microrganismi nativi, già presenti, ben distribuiti e ben acclimatati all’ambiente del sottosuolo. Ma questo sarà possibile ovviamente, solo se i ceppi batterici presenti, saranno in grado di utilizzare quello specifico contaminante, come substrato nutritizio.
Se il nostro sito non ha mai avuto contaminazioni simili, sarà veramente improbabile che possiamo trovarci (anche sotto forma di spore), microrganismi utili per il nostro problema.
Se la contaminazione si verifica in un terreno agricolo, ad esempio, sarà più facile trovarci, come ceppo dominante, dei coliformi fecali, che anche se li dopiamo, potranno fare molto poco per noi!
Mentre, diverso è il caso di una contaminazione pregressa e risolta. Le comunità microbiche esposte e sopravvissute, potranno facilmente riattivarsi e adattarsi in poche ore, con arricchimenti selettivi e modificazioni genetiche favorevoli.
Da sottolineare che un’aggiunta di nutrienti, non quantificata con precisione scientifica, potrebbe risultare addirittura dannosa, sia perché potrebbe causare fenomeni di eutrofizzazione (crescita di alghe e microflora, che ridurrebbero la concentrazione di ossigeno disciolto nell’acqua), sia incentivare popolazioni eterotrofiche (in pratica dei parassiti, non interessati al contaminante), innescando inavvertitamente una condizione di antagonismo, che andrà a limitare l’intero processo di decontaminazione.
Tutte queste perplessità, verrebbero compensate e colmate, applicando congiuntamente entrambe queste metodiche, oltre a ottimizzare e massimizzare il biorisanamento.
Ma in che modo? Di modi ne esistono diversi. Io voglio descriverti come lo facciamo noi da anni. Un protocollo che non ci ha mai deluso.
Innanzitutto, è fondamentale, sia che si operi in situ o ex situ, conoscere l’esatta composizione chimica e la concentrazione della contaminazione, nella matrice ambientale. Questo ci aiuterà a selezionare il miglior consorzio microbico, che meglio potrà degradare l’intera composizione della contaminazione.
È importante incentivare e impiegare al meglio la stretta collaborazione tra tutti i microrganismi ed il loro co-metabolismo (anche di quelli indigeni), perché ci eviterà di ritrovarci, dopo un certo tempo, ad avere ancora qualche picco di contaminazione residuo, dovuto a qualche specifica frazione di contaminante più ostica da rimuovere.
Questo azzererebbe tutti gli sforzi fatti con il trattamento.
Senza considerare che, diverse pubblicazioni scientifiche, hanno segnalato che spesso, il componente residuo non aggredito, si rivela essere anche più tossico e pericoloso per l’ambiente, della miscela completa di partenza.
Ci tengo a sottolineare che, è sempre necessario preparare ed attivare accuratamente la miscela microbica selezionata, prima di distribuirla nella matrice ambientale.
Ho sentito spesso di bonifiche tentate, aprendo il secchio e spargendo la polverina, sul terreno contaminato, sperando che poi faccia tutto da sola. Purtroppo non funziona così.
Per attivare adeguatamente un inoculo, è necessario utilizzare un reattore biologico, anche improvvisato. L’importante è che abbia una capacità sufficiente per contenere tutto l’inoculo che ci serve (altrimenti si dovrà fare in più volte) e che sia dotato di soffiante e diffusore a membrana, per l’ossigenazione.
La preparazione può durare anche 24 ore, durante le quali ci si dovrà prendere cura dei batteri, con l’attenzione di un buon padre di famiglia.
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Secondo una precisa tempistica, si dovrà dosare all’interno del reattore biologico, tutti i nutrienti che sono indispensabili per promuovere la sintesi cellulare e innescare la rapida crescita esponenziale dei nostri batteri.
Per primo sarà necessario fornirgli una fonte di Carbonio. Noi solitamente impieghiamo Melassa o Farina di Pesce, proprio per la loro elevata biodisponibilità e composizione, completa ed equilibrata, tra Carbonio e altri macronutrienti.
Una volta che i batteri si saranno destati e riattivati, ci sarà da aggiungere una quantità stabilita di olio (un qualsiasi olio alimentare, anche economico), questo stimolerà la produzione di bio-surfattante, che ci sarà molto utile poi, in fase di bonifica, per riuscire a scomporre i composti più complessi ed ostici.
Durante le 24 ore di preparazione, ricordati di controllare periodicamente, tutti i parametri vitali, come: pH, temperatura, Ossigeno Disciolto (D.O.), etc., in modo da poter intervenire prontamente, se qualcosa dovesse andare storto.
Con questa procedura, il numero totale dei microrganismi aumenterà esponenzialmente di diversi ordini di grandezza, rendendo tale consorzio, difficile da battere, in una competizione per il cibo.
Solo alla fine, quando i batteri avranno raggiunto il loro picco metabolico (verificabile perché, nonostante l’aerazione attiva, il parametro D.O. sarà quasi a zero), potremo aggiungere quantità precise di quei principali nutrienti limitanti, impiegati per la biostimolazione.
Possono essere usati normali fertilizzanti, facilmente reperibili in qualsiasi ingrosso di materiale per l’agricoltura e il giardinaggio, come l’Urea ed il Fosfato Disodico o Dipotassico, o direttamente un fertilizzante NPK.
I nutrienti, saranno molto più efficaci, se introdotti direttamente nel reattore, qualche minuto prima di impiegare l’inoculo (giusto il tempo di lasciarli sciogliere in acqua), sia perché saranno ben miscelati, ma soprattutto perché verranno distribuiti insieme ai batteri.
Analogamente a come già descritto negli articoli sugli enzimi e sull’attivazione del biofiltro, introdurre i nutrienti limitanti nel reattore, creerà un forte sbilanciamento verso di questi, che incrementerà notevolmente la fame di Carbonio (C:N:P = 100:5:1).
Ciò significa che, una volta inseriti nell’ambiente, i microrganismi attaccheranno voracemente tutto il Carbonio disponibile nella contaminazione, moltiplicandosi esponenzialmente, creandosi rapidamente il loro habitat ottimale (con la produzione in massa del biofilm) e sbaragliando tutta la concorrenza, compresi i predatori.
Un uso congiunto, coordinato e sapiente di bioaumento e biostimolazione, ti darà quella marcia in più, che ti garantirà di risanare rapidamente, qualsiasi matrice ambientale contaminata.
Quello che facciamo, non è nulla di trascendentale, è lo stesso principio che, da anni, viene impiegato in tutti gli impianti biologici (vedi ad esempio, la vasca a fanghi attivi di un depuratore).
Tranquillo, una volta eliminata la contaminazione, non essendoci più il loro substrato nutritizio preferito, inizieranno a morire, si mangeranno l’un l’altro e i pochi superstiti, o si adatteranno alle nuove condizioni, o andranno in protezione (sporuleranno), in attesa che una nuova contaminazione simile, ricapiti.
“Mi sono rivolto alla Eco Solution per una serie di bonifiche ambientali davvero impegnative, in terreni contaminati da idrocarburi.
Si sono dimostrati precisi, puntuali e davvero competenti. Sanno realmente come far lavorare i batteri al massimo delle loro potenzialità. I tempi per la bonifica sono leggermente più lunghi, ma i costi non sono neanche lontanamente paragonabili a quelli di una bonifica svolta con i sistemi classici”.
Carlo Foti – Amministratore Unico della FAP Soc. Coop. arl
“Renato è senza ombra di dubbio un grande esperto di abbattimento odori: imposta le sue consulenze sulla base di studio ed esperienza. Ciò che distingue Eco Solution è proprio l’approccio complessivo che prende in considerazione tutti gli aspetti che ruotano attorno alla soluzione.
La nostra azienda costruisce impianti per abbattimento odori, personalizzati e dalle performance superiori, ma soprattutto capaci di evitare mille incombenze che spesso sono causa del risultato finale poco proficuo; la collaborazione con Eco Solution contribuisce ogni giorno a perfezionare i nostri impianti e, nella stessa misura, le nostre soluzioni aiutano Eco Solution a individuare nuove tecnologie da consigliare ai clienti”.
Gerardo Famularo – Amministratore Unico della GF Ambiente Srl
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Uniamo la nostra esperienza e ai prodotti Biofuture per riequilibrare, rigenerare e risolvere criticità e disequilibri ambientali e industriali in tutta Italia
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